venerdì 30 aprile 2010

Arte varia

paul gauguin


Le condensazioni arrivano da ogni parte, soprattutto quando si è stanchi di osservare sempre nella stessa direzione.

Attirato dal titolo e dalla copertina italiana (Adelphi 424), mi trovo invischiato nell’appassionante lettura del miglior romanzo dell’inglese W. Somerset Maugham (il migliore, essendo il suo primo che leggo!), La luna e sei soldi (The Moon and sixpence, 1919).
Il tono è più o meno esemplificato da questo breve, abbagliante saluto al termine della lettera di addio alla moglie da parte del protagonista:

Non tornerò. La mia decisione è irrevocabile.
Tuo sempre,
Charles

La comunicazione di un addio irrevocabile è chiusa dalla frase “tuo sempre” che è al contempo ferocemente ironica e vagamente trascendente.
D’altra parte, come dirà più avanti Maugham di sé stesso:
Non avevo ancora imparato com’è contraddittoria la natura umana; ignoravo quanto c’è di posa nel sincero, di bassezza nel nobile, e di bontà nel reprobo.

Il protagonista del romanzo è un Paul Gauguin appena mascherato e l’esperimento di Maugham è un’appassionante finta biografia, verosimile quanto felicemente pretestuosa.
L’audacia di Maugham, che nel primo dopoguerra gioca con le aspettative del lettore “inventando una storia vera”, è importante ma ancor di più lo è il suo sguardo sull’arte e la creatività.
Innanzitutto quel che pensa in merito all’essere un autore autonomo e disinteressato del parere altrui:

Quando una persona dice di non curarsi di quello che pensano gli altri, il più delle volte si illude. Generalmente intende dire soltanto che suole fare come le aggrada, confidando che nessuno verrà a conoscere le sue stravaganze; o, tutt’al più, che è disposta ad agire in contrasto con l’opinione della maggioranza perché è sorretta dall’approvazione di chi la pensa come lei. Non è difficile essere anticonformisti agli occhi del mondo quando il tuo anticonformismo non è che il conformismo della tua cerchia. E te ne viene una dose smodata di stima per te stesso. Hai il compiacimento del coraggio senza l’incomodo del pericolo.
Poi una luminosa riflessione sulla bellezza, e sul rapporto tra artista e fruitore:

Perché pensare che la bellezza, la cosa più preziosa del mondo, se ne stia come un sasso sulla spiaggia, a farsi raccogliere per ozio dal primo sbadato passante? La bellezza è qualcosa di strano e meraviglioso che l’artista plasma dal caos del mondo nel tormento della sua anima. E quando l’ha creata, non a tutti è dato comprenderla. Per riconoscerla devi ripetere l’avventura dell’artista. È una melodia quella che lui ti canta, e per riudirla in cuor tuo ti occorre esperienza, sensibilità e immaginazione.
La scrittura e l’impostazione sono geneticamente letterarie. C’è un passo piuttosto lungo, che non riporto per non risultare eccessivamente pedante, nel quale Maugham cerca di descrivere la pittura di “Gauguin” e quello che la muove. Le parole arrivano in modo indiretto, perché faticano a rappresentare il dato visivo della pittura. Per quanto Maugham ci provi, non è sul piano visivo che può avvenire il processo di mimesi e di sintesi (sintetismo?!), ma su quello logico, concettuale e verbale. E infatti, l’impressione più forte derivante dalla lettura, è che Maugham usi la forza evocativa dell’opera di Gauguin come pretesto per parlare di letteratura, della vocazione artistica in questo ambito e, di riflesso, del proprio percorso artistico. Tanto che in un passaggio:

Mi chiedo se potrei mai scrivere su un’isola deserta, con la certezza che nessuno tranne me vedrà mai quello che ho scritto.

Altrettanto interessante è uno scambio nel quale due personaggi secondari divergono sul concetto di successo di pubblico, o su come riconoscere la validità di un’opera. Da notare che, ironicamente, il primo interlocutore è un pittore di buon successo commerciale privo di qualunque talento, come riconosce egli stesso, al contrario di “Gauguin” che nel romanzo è senza soldi e privo di riconoscimento da parte di critica e pubblico (almeno finché in vita). Il secondo interlocutore è un rigattiere, quindi, in sostanza, un commerciante:

- E lei, allora, come lo riconosce il talento?
- C’è solo un modo. Dal successo.
- Filisteo!
- Ma pensi ai grandi artisti del passato, Raffaello, Michelangelo, Ingres, Delacroix. Tutti hanno avuto successo.
- Andiamo o quest’uomo lo uccido.
Ma se è vero, come dice Maugham (che nel romanzo interpreta sé stesso), che:

Non è vero che la sofferenza nobilita il carattere. Così fa a volte la felicità; la sofferenza, per lo più, rende gli uomini meschini e vendicativi.

Viene da pensare che la maggior parte degli artisti più importanti dello scorso secolo (e non solo), in ogni disciplina, siano stati tra gli uomini più spregevoli della vita umana: Van Gogh, Jim Morrison, David Foster Wallace, Miles Davis, … per dire dei primi nomi che mi sono venuti disordinatamente in mente.

Come detto, il tentativo di Maugham si rivela efficace quasi esclusivamente sul piano letterario. MA cosa accadrebbe se un artista, attraverso il mezzo (ig)nobile e bastardo del fumetto, provasse un diverso processo di sintesi, mimetizzandosi anch’egli con il percorso di vita di un pittore, appropriandosi delle sue opere e rielaborando sul piano visivo il suo immaginario? Se l’autore ha l’intelligenza di Sfar, ne nascerebbe probabilmente un lavoro verosimile, nudo, terreno e volgare come Pascin.
Pascin è una sorta di gemello diverso di La luna e sei soldi, un corrispettivo in linguaggio fumetto. Gemelli separati da tante, troppe distanze (temporali, culturali, di mezzo espressivo, …) per azzardare un vero confronto. Ma un accostamento, perché no?
Laddove non può Maugham, con la letteratura, può Sfar con la sua sfrontatezza e con il fumetto: le tele di Pascin alias Julius Mordecai Pincas diventano pezzi di narrazione, tavole di fumetto, in un gioco di specchi nel quale Sfar si identifica con il pittore, e questi diviene il fumettista, uniti dalla comune insofferenza per la vita e dall’irresistibile vocazione artistica.

Pascin e La luna e i sei soldi sono entrambe opere originali e riuscite. Opere felici, che possono imprigionare il lettore e rivelano moltissimo sulla vita. Questo passaggio, ancora dal romanzo di Maugham, potrebbe essere attribuito a molti autori di fumetti, di ogni generazione:

A quanto capivo dipingeva con grande difficoltà; e nella sua renitenza a cercare aiuto da chicchessia perdeva molto tempo per trovare da solo la soluzione di problemi tecnici che le generazioni precedenti avevano già risolto uno per uno. Mirava a qualcosa, a cosa non sapevo, e forse non lo sapeva nemmeno lui; e di nuovo ebbi, più forte, l’impressione di un uomo posseduto.

Quel che mi piace pensare è che vi sia la possibilità, ancora oggi, di trovare artisti realmente posseduti da una vocazione, da una chiamata, che li costringerebbe a realizzare le proprie opere anche su un’isola deserta. In attesa, forse, di una futura, impensabile, colonizzazione.

Harry


 joann sfar

giovedì 29 aprile 2010

Fortuna

Se possiedi una rivista dal nome “Fortuna” che parla di business e decidi di festeggiare la tua 500° uscita con una copertina inedita di Chris Ware, sappi che rischi di incappare in questo risultato:
(c) chris ware


Il che, tutto sommato, è un rischio molto inferiore di quello che quotidianamente affronti parlando di business in un periodo di crisi economica, soprattutto se non sei disposto in alcun modo a cambiare paradigmi, quelli stessi che hanno generato la crisi, quelli stessi che permettono, ancora oggi, le speculazioni delle grandi banche e i ricatti del FMI.

La cover di Ware è fumetto?
O solo illustrazione?
Di queste domande mi riempivo la testa, un tempo. L’approccio dell’autore canadese è ovviamente narrativo, e racchiude, in una singola tavola, un denso meta-testo. E nel formalismo tipico dell’autore, ovvero in quell’equilibrio formale che lega ogni simbolo lì rappresentato, si può trovare una facile chiave di lettura e una direzione al movimento “narrativo” che Ware ha cercato.
Mi duole dire che la tavola non è eccezionale secondo alcun punto di vista: non per composizione, non per scelta dei contenuti, non per aspirazione, non come provocazione.
Il prevedibile rifiuto di Fortune e la successiva esposizione mediatica via internet mi convince che è di questo che Ware ha voluto occuparsi da subito, della verifica di quanto possa essere favorevole per una rivista, oggi, rifiutare un lavoro commissionato perché eccessivamente provocatorio. Meglio assumersi la responsabilità dell’autoironia irrispettosa (e facile) pubblicando la copertina in questione? Meglio fare la figura dei bacchettoni e dei corporativisti non pubblicando la cover che sappiamo già verrà velocemente rimbalzata in rete in tutte le direzioni?

Alla prima domanda, invece, quella che si chiede se una tavola come questa sia fumetto o meno, fatico a trovare una risposta convincente, ma aggiungo almeno un altro spunto: le vignette singole, in stile Dennis The Menace, sono fumetto? E se non lo sono, cosa sono?

Harry.

(c) hank ketcham

domenica 25 aprile 2010

L'infinito nelle mani

 cover di jim starlin

Jim Starlin non è raffinato.
Il suo tratto non lo è. La sua scrittura non lo è.
Ma le sue storie trasudano intelligenza.
Ci sono autori che si muovono all'interno del fumetto di genere (parliamo di supereroi, qui) senza esserne intrappolati. Starlin usa il genere per esplorare, senza delicatezza, senza raffinatezze, alcune idee in merito al potere, alla mente, all'anima, all'infinito.
Le storie di supereroi, che per molti versi rappresentano la nuova epica statunitense, quando ben scritte, sono un'ottima metafora per parlare delle pulsioni essenziali che guidano l'esistenza: il desiderio, il potere, il controllo, la paura della morte, l'illusione dell'immortalità.
Starlin inizia negli anni '70 a sbatterci in faccia la necessità di pensare ai comics come a qualcosa di più di storie lineari e autoreferenziali. E da quel momento, non ha più smesso di raccontare la sua visione delle cose.

Ma Jim Starlin è grossolano, grezzo. Termini che uso senza alcun intento negativo. La psichedelia delle prime storie di Warlock è derivativa e ingenua, nelle sue speculazioni e nella ricerca di una chiave assolutamente fumettistica. E per questo, ancora oggi, quelle storie appaiono seminali, divertenti e dirette.

Negli anni '90, Starlin ha una diversa padronanza del mezzo, è più controllato, mediato. Ma non perde efficacia nel racconto.
Le sue storie si muovono per concetti, idee e speculazioni, attraverso un gusto unico per la drammatizzazione e per la caratterizzazione dei personaggi e delle dinamiche relazionali, come si può leggere nella recente ristampa de Il Guanto dell'Infinito.

Jim Starlin è sempre stato uno dei miei autori di comics preferiti. Jim Starlin ha un'intelligenza rara.

Harry

lunedì 12 aprile 2010

La vita dentro alle storie

 disegno di dave gibbons. mettere a fuoco



  Not words of routine this song of mine,
  But abruptly to question, to leap beyond yet nearer bring;
  This printed and bound book—but the printer and the
      printing-office boy?
  The well-taken photographs—but your wife or friend close and solid
      in your arms?
  The black ship mail'd with iron, her mighty guns in her turrets—but
      the pluck of the captain and engineers?
  In the houses the dishes and fare and furniture—but the host and
      hostess, and the look out of their eyes?
  The sky up there—yet here or next door, or across the way?
  The saints and sages in history—but you yourself?
  Sermons, creeds, theology—but the fathomless human brain,
  And what is reason? and what is love? and what is life?
Leaves Of Grass, Walt Whitman



Sono interessato ai particolari obliqui, agli elementi di una storia che ne reggono la verosimiglianza, la credibilità, la consistenza psicologica.
Non mi interessano le trame, di per sé, perché le trame, i soggetti sono inconsistenti e fragili.
Voglio che un autore, con le sue parole e i suoi tratti, mi racconti come un personaggio si muove e non solo che si muove; come vive quello che pensa; come gestisce una situazione, con quale sforzo personale, con quale incognita; cosa succede alle sue mani quando incontra la donna che ama; perché la sua auto non parte, al momento dell’inseguimento; in quale parte del suo viso si incrinano le sue sicurezze; come si muovono le nuvole nel cielo prima del temporale.

Il fumetto può essere fatto di queste cose. Deve essere fatto di queste cose. La trama, le trame, sono solo meccanismi più o meno efficaci, più o meno prevedibili. Non mi aspetto un soggetto originale, dopo decenni di letture. In Watchmen non è certo il ribaltamento finale quel che rende speciale la storia, ma la cura che Moore e Gibbons hanno messo nei particolari. Quella storia vive dei particolari. Del magazzino in cui sono nascosti i costumi dismessi; dei segni sui muri; della tensione negli occhi prima della morte; del ritmo dei passi sul terreno; del movimento circolare delle azioni; delle paure e dei desideri di uomini e donne; della tensione sociale che funesta i cittadini; dell’amore.

Ma non delle foglie disegnate una a una da Magnus nel suo Texone vuoto e fragile, sto parlando. Non di inutili sforzi senza senso, o di particolari fuori luogo, sproporzionati rispetto alle intenzioni della storia. Non di grovigli di ragnatele in cima a una palazzo, a nascondere i propri limiti tecnici, come fu per McFarlane.
Parlo della sottigliezza dei simboli, della perfetta inclusione nella narrazione di linee semplici, verbali o iconiche, che aprano alla comprensione, che soddisfino il desiderio di partecipazione umana del lettore. Che mettano a nudo quel che l’autore è e quel che l’autore sa. E che sveli quello che muove la trama, tanto da renderla necessaria, impossibile a pensarsi diversamente.
Parlo di tutto ciò che può mettere la vita dentro alle storie. E che troppi autori dimenticano nei cassetti della loro fredda professionalità.

Harry.

venerdì 9 aprile 2010

Innovare senza rinnovare

 copertina di marco soldi


Mentre accetto l’idea di non avere un’idea chiara in merito alla presunta staticità, vetustà e sterilità del fumetto Bonelli, alla possibilità o meno di innovare senza destrutturare regole, principi e limiti prestabiliti del fumetto popolare italiano per antonomasia, mi capita tra le mani l’ultimo numero di Julia di Giancarlo Berardi, con il ritorno, l’ennesimo, dell’alter ego Myrna.
Al solito, i pennelli sono nelle mani della straordinaria Laura Zuccheri (con la quale mi piacerebbe un giorno chiacchierare).
Si sa, Berardi ha creato il fumetto seriale perfetto. Si sa, Berardi chiede ai suoi disegnatori di nascondersi nell’ombra, alla ricerca di una compattezza stilistica che a volte tocca l’anonimato o lo schematismo.
Ma non con Zuccheri. Perché Laura ha fatto proprio il modello tanto da incarnarlo.
E la sua Julia, nella semplicità del tratto, in questo presunto anonimato anti-autoriale, diviene puro simbolo visivo, dalla forte valenza iconica.

A un certo punto, durante la lettura, l’abitudine alla vivisezione mi aveva già messo in mano matita, foglietti e appunti mentali per individuare parti significative, passaggi della storia dove il punto che voglio evidenziare emergesse con più forza.
Ma lascio perdere. Cattive abitudini.

Qui siamo di fronte alla pura innovazione all’interno dello schema compositivo più tradizionale. Non una sbavatura nella griglia, non un’infrazione delle regole del genere, non un’interpretazione tangenziale della vocazione avventurosa del fumetto Bonelli.
Ma all’interno di questo spazio costretto, a Berardi e Maurizio Mantero riesce l’insperato, ovvero di raccontare una storia matura, senza mediazioni e, questa volta, anche senza asterischi, arrivando al cuore dei lettori attraverso il cuore dei personaggi. Assistiamo a uno stupro in piena regola e, quel che più conta, a una sequenza di azioni e reazioni psicologicamente impeccabili, dove gli autori scompaiono al pieno servizio della finzione narrativa, e con la cura umanissima per la verosimiglianza. È all’interno di questo meccanismo espressivo, e all’incedere sicuro e perfettamente studiato, che la tecnica si fa invisibile affermando la forza della storia, nella sua auto-evidenza.
E per questo risultato, il contributo di Zuccheri è fondamentale, lo ripeto. Perché è nella sua “trasparenza autoriale” che si marca la forza delle sue autentiche qualità narrative.

Berardi e compagnia fanno quello che Medda con Caravan non sa fare, ovvero traghetta all’interno di un format(o) rigido l’apertura pienamente matura, adulta, priva di compromessi di un fumetto nuovo, di un modello narrativo nuovo. Che ha così tante derivazioni e matrici da apparire completamente inedito e, appunto, innovativo.

Quindi è possibile.
Ma l’eccezione non conferma la regola.
Fossi in te, caro lettore di questo blog, proverei a osservare i movimenti e rivoli che spostano con estremo controllo la narrazione all’interno di Julia, fino a raggiungere la naturalezza della violenza barbara che soffoca la nostra quotidianità, fino a rivelare l’estrema dolcezza e fragilità di questa vita.
Non c’è altro. Non c’è nulla di meno di questo.

Harry.


Tutti i testi di questo blog sono (c) di Harry Naybors, salvo dove diversamente indicato.
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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.