venerdì 25 febbraio 2011

L'amore immobile nello studio di Munari

 (c) alessandro baronciani

Scrivo in treno, circondato da persone che occupano la mente con giochi al cellulare talmente minuscoli da essere incomprensibili e con i quotidiani gratuiti, hai presente, quei fogli di carta che leggi per convincerti di essere aggiornato su quel che ti succede intorno.

Scrivo e rifletto su un cambiamento di paradigma. Quando osservi le donne che ti si muovono intorno, c’è un meccanismo automatico che le associa alle protagoniste dell’ultimo show televisivo o alle pornostar più in voga (che sono la stessa cosa, in definitiva). Caparezza la chiama la rivoluzione del sesso in tutto. Ne parla anche Roberto Recchioni, per qualche verso, te lo segnalo di passaggio. Anche se quello che lui indica come eversione mi sembra piuttosto una banale quanto totalizzante perversione nevrotica (e lo dico, sia chiaro, senza alcun giudizio valoriale. In chiave psicopatologica, piuttosto). In questo mi sento più vicino a Spari. Ma torniamo in tema.

Alessandro Baronciani è legato a un vecchio paradigma, quello romantico/nostalgico. Il viso di una donna, i suoi capelli, il suo passo lo riportano alle protagoniste di vecchi film francesi. Basterebbe questo a descrivere lo sguardo di Baronciani nel suo ultimo libro Le ragazze nello studio di Munari (Black Velvet). In questo lavoro appare un autore incapace di raccontare il presente, e un protagonista incapace di vivere il presente. Il libraio innamorato dell’arte di Munari e di tre donne contemporaneamente (o solo di Chiara?), che è protagonista del libro, sembra bloccato in un eterno passato, fatto di ricordi, nostalgie e malinconia abissale. Non accade nulla in questo libro. Nulla che non sia un fotogramma di un evento già chiuso, di un tempo eternamente presente ma sempre fuori fase.
 
Sono cresciuto tra le idee e i simboli di Bruno Munari. Il primo ricordo è Le favole al telefono di Gianni Rodari nella copertina di Munari. Il secondo è la scimmia Zizi, ancora oggi tra i giochi di mio figlio. Poi le sue idee, i suoi scritti sul design come nuova forma d’arte (Arte come mestiere), l'unica, a suo dire, in grado di associare la ricerca estetica con la praticità. Le sue idee sulla creatività, sull’educazione e la consistenza, sì consistenza è il termine che mi viene più utile, la consistenza dell’espressione artistica. C’è un progetto in atto da più di dieci anni a Reggio Emilia che si fa capo alla società Reggio Children che si struttura a partire dalle sue idee sulla didattica e l’educazione. Ne puoi leggere in queste riviste. Sono straordinarie, rivoluzionarie e, ahimé, totalmente agli antipodi delle idee attualmente in voga nell’arena politica sulla scuola.
Non so se Munari si sia mai interessato al fumetto, ma credo che ne avrebbe apprezzato certi sviluppi. Come il lavoro di Baronciani, e le sue trovate cartotecniche, che nascono da un’esplorazione delle possibilità artistiche del maestro. Un lavoro intelligente, ricco di cura e amore.




C’è poi un gioco di Munari che mi capita di utilizzare ancora oggi, si chiama + e – (più e meno) ed è costituito da tante carte lucide con semplici disegni stilizzati. Le carte sono sovrapponibili e il gioco consiste nell’inventare scenari e storie diverse a seconda delle molteplici composizioni di carte. C'è un filmato che ne esemplifica il funzionamento.


È con questo gioco che Baronciani apre il suo libro. Fermiamoci qui. Baronciani fa proprie alcune prospettive narrative e visive di Munari, e le ripropone in fumetto. Lo stesso fa con alcuni principi, come quello sulla risoluzione dei problemi, celebre quanto, boh, utile? Forse. La nostra mente segue percorsi misteriosi. Eppure, questo tentativo di trasformare i rapporti affettivi in design mi sembra contraddire l’essenza stessa dell’approccio di Munari. Questo soffermarsi, isolarsi nel passato, mi sembra un sentimentalismo intellettuale un po’ sterile. Manca di crudeltà, o di concretezza, c’è una suggestione intellettualistica che non mi convince. Un tentativo che forza l’occhio del creativo italiano per assoggettarlo a qualcosa di vecchio, statico, monolingue.

Baronciani, d’altra parte, ha fatto ancor più personale il proprio stile, trovando un equilibrio formale appagante per il lettore. Sa commuovere, sa mostrare la fragilità degli affetti, nell’incapacità di diventare adulti. Ma se in Quando tutto diventò blu il suo sguardo algido e malinconico, in relazione alla malattia, appare felicemente delicato e anti-patetico, in Le ragazze nello studio di Munari sembra traslucido e assordante perché isolato dalla concretezza dell’esistenza. Forse è questa pellicola sottile che Baronciani dovrebbe sollevare, per trovare un rapporto con la vita che, certo, può sporcare, ma può anche permettere un deciso sviluppo delle sue potenzialità espressive.

Harry.

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